Martedì 11
Febbraio 2020 sono stato al Toselli (della cui stagione teatrale sono abbonato).
Avevo molta fiducia di vedere realizzato teatralmente un testo del mio
ammiratissimo Anton Cechov dal titolo PLATONOV. Era un testo che non conoscevo
ma il teatro di Cechov con le pause ed suoi silenzi, la melanconia struggente
dei suoi personaggi, si.
Invece mi sono trovato difronte ad uno spettacolo prorompente agitazione, grida,
violenza, poco cechoviana. Credevo di attribuire il tutto
alla “riscrittura” di Marco Lorenzi (che era anche il regista) e Lorenzo De Iacovo,
operazione molto frequente e spesso infedele nei confronti degli autori.
Invece andando a cercarmi la
storia di Platonov ho appreso che questa è la prima delle opere teatrali del
giovane medico che si affaccia su una società spietata e violenta quale la
Russia del clima dei ” servi della gleba” (abolita solo nel 1861 l’anno dopo
quello della sua nascita) . E’ da questo
clima in cui era cresciuto, Cechov giunge
alla conclusione che “la madre di tutti i mali russi, è l’ignoranza che
sussiste in egual misura in tutti i partiti,
in tutte le tendenze” (cosa che
avviene anche oggi e non solo in Russia n.d.r).
Forse è perciò che Cechov concepisce Platonov , già maestro elementare, diventato cinico, che ama
apparire in società come un gaudente che vive delle glorie e degli ideali della
sua promettente giovinezza. Invece è un
uomo senza qualità, un fallito, narcisista al punto di non comprendere né
considerare le esigenze di chi gli sta intorno : la moglie , tanto gelosa
quanto premurosa , e le sue tre amanti, ovvero la sua vecchia compagna di studi
appena sposata , una giovane sedotta ed abbandonata e una squattrinata vedova
di origini nobiliari. Nella versione
presentataci al Toselli , vi è poi uno squallido strozzino
(rappresentante della nascente borgesi
russa). Scrive un critico: “ La
monotonia della nebbiosa provincia russa sembra avvolgere tutto, conferendo ai
dialoghi ed ai personaggi stessi un’atmosfera sbiadita e rarefatta, il sentore
di una ipocrisia latente , che inesorabilmente contagia i difficili rapporti
umani. Il sentimento dominante è la noia che appare fin dalla prima battuta
dell’opera e per sfuggire a questa impalpabile malattia dell’esistenza si è
disposti a tutto: a sedurre ed essere sedotti, sognare partenze impossibili
verso “nuovi mondi” oppure cercare una facile e pericolosa evasione nell’alcool,
da sempre vera piaga sociale della Russia.
Forse per questo tutte le donne amano Platonov, perché rappresenta il
sogno di un cambiamento, dell’avventura, della giovinezza anche solo per
rompere la piattezza della quotidianità.
Platonov paradossalmente attrae le donne spaciandosi proprio per il
nuovo che avanza, con i suoi discorsi vani, i suoi falsi ideali, il suo fascino
di reduce, che, pur sconfitto dalla vita, continua ad avanzare per inerzia,
memore degli effimeri successi passati. Non è un caso che Cechov abbia scelto per lui la professione
del maestro di scuola: un “cattivo maestro”, appunto in una società che scivola
velocemente verso un’ irreversibile decadenza””.
Questo quadro è il mondo del Cechov maturo e ripiegato su se stesso (lo vedremo –
spero - ne “Il giardino dei ciliegi”) ma
in Platonov - secondo me - vede un mondo
che gli ripugna e che vorrebbe cambiare : quello di un vinto che nella violenza
e nell’alcool cerca di non scivolare nel fango che lo soffoca però si omette il quarto atto dove l’eroe eponimo muore : è Cechov a cancellarlo !
Forse la “riscrittura” e
la rappresentazione del Platonov visto al Toselli voleva fare emergere tutto ciò (e che altro ?) ma la sottigliezza psicologica di Cechov è stata
soverchiata dalla interpretazione del
ruolo da parte di Marco Sinisi urlata
sul pubblico e anche sugli altri personaggi, peraltro scialbi. Scenografia con pareti mobili e diapositive
disturbanti.
Il pubblico è stato travolto ed ha applaudito lungamente e
“sonoramente” con ragione, forse.
VOTO 8 (otto)